American Football, il primo e fino a poco tempo fa unico LP degli American Football, è un album che ha fatto la storia della musica come pochi hanno fatto negli ultimi due decenni. Uscito nel 1999, è stato il pioniere e capostipite di un genere e di una corrente, ed ha acquisito col tempo quell’aura divina che solo quelle band scomparse dopo un solo bellissimo disco sanno detenere. Ma forse più che nella commistione di emo e math rock, il fascino di American Football stava proprio nei contenuti: già esemplificativo dalla copertina, era un concept sulla fine dell’adolescenza, sulla rabbia post-adolescenziale, sulla nostalgia che senti già prima di lasciare casa per non tornarci più – se non come ospite. In American Football c’era un’urgenza che traspariva dalla voce di Mike Kinsella che è quella tipica di chi ha paura del vuoto e del futuro, una paura raccontata in modo così personale da riuscire a raccontare un tema universale quasi sotto forma di diario, rendendolo unanimamente condivisibile.

Diciassette anni dopo, la band ha alle spalle diverse esperienze (Cap’n Jazz, Joan of Arc, Owen tra queste) ed il peso di questi anni si sente sulla produzione e sui contenuti di American Football (LP2). Sul piano tematico i due album sono quasi complementari: laddove in LP1 i titoli dei brani arrivavano a fine canzone, in LP2 sono sempre nel primo verso; laddove in LP1 c’erano le paure e c’erano gli affanni, in LP2 c’è un senso generale di rassegnazione che è quello tipico di chi, sulla soglia dei quarant’anni, riguarda indietro al proprio vissuto sì con nostalgia, ma con sguardo disilluso. Where Are We Now? lo racconta graficamente, portandoci all’interno della famosissima casa introducendo le amarezze di una relazione protrattasi per inerzia, “both home alone in the same house”.

Sul piano musicale, invece, restano quasi intatti gli intrecci di chitarra di cui Kinsella e Steve Holmes hanno fatto un marchio di fabbrica, che siano sognanti (Home Is Where the Haunt Is), squillanti (My Instincts Are the Enemy), o più tuonanti (Born to Lose), mentre ritroviamo la tromba di Steve Lamos solo in I Need a Drink (or Two, or Three) e Everyone Is Dressed Up. Il cantato di Mike Kinsella è cambiato col tempo, e in American Football si sente forte l’influenza dell’esperienza da songwriter in Owen: la rassegnazione è trasmessa anche dalla voce, che non è più quella acuta, urlata e spigolosa che abbiamo amato nel primo album, ma più piena e più vicina – appunto – al cantautoriale, simile nel colore a quella di Evan Weiss (Into It. Over It.). È forse la voce a spiazzare un po’ l’ascoltatore in American Football, che non si aspettava di trovarla in posizione così centrale all’interno dell’album, oltre che molto più sostanziosa sul piano lirico; e con la scelta di mettere le voci in primo piano, gli American Football prendono le giuste distanze da toni troppo acuti che alienerebbero il resto della sezione ritmica – lo fanno solo in parte in Desire Gets in the Way, con risultati un po’ stridenti.

American Football forse non è quello che tutti si aspettavano, e qui si potrebbe disquisire a lungo, ché ci saranno sempre le fazioni dell'”è troppo diverso dal primo”/”è troppo uguale al primo”; resta, in ogni caso, un grande ritorno di una band che è riuscita, a distanza di 17 anni, a raccontare due spaccati di vita differenti ponendoli sulla stessa linea narrativa. I due American Football sono come i racconti di Salinger: puoi leggerli singolarmente ed apprezzarne le tante sfumature, ma è quando ne rintracci le connessioni che riesci a vedere il tutto e capire l’insieme.

Tracce consigliate: I Need a Drink (or Two, or Three), Give Me the Gun