Oggi vi aggiorniamo con qualche recensione breve sugli ultimi album interessanti usciti recentemente.

Frankie Cosmos – Vessel

Le melodie di Greta Kline riescono ad ottenere una costruzione definitiva nel terzo disco del progetto Frankie Cosmos, sporgendo la testa al di fuori della propria cameretta e guardando ad un suono più curato, senza mai, però, abbandonare l’animo indie pop newyorkese che da principio ha attirato a sé una cerchia di ascoltatori. Quello stesso spirito lo-fi presente nelle vecchie home recording di bandcamp lo si ritrova registrato ora in studio, proponendo una versione “pulita” di singoli come Being Alive, da affirms glinting, che tiene testa alle precedenti versioni, mostrando pure una certa maturità nel ricreare il proprio suono ed evolvendone la struttura, lasciando il significato intatto. Intatta è rimasta anche la devozione al gingle, la scrittura di brani brevi e chatchy tipica della band, che sfuma giusto in due brani del disco, spaziando (addiritura) verso i 3 minuti e mezzo di durata.  18 brani, mezz’ora di ascolto, e una marea di pensieri attraversano la mente in brevi istanti frammentati, questa volta meno ottimisti rispetto ai precendenti e anzi, focalizzati verso l’autocritica e la realizzazione di sé stessi, da un punto di vista più terreno e, purtroppo, veritiero.

Voto: 7.5 – Claudio Carboni

Capo Plaza – 20

Giovane, giovane fuori classe/Plaza campione come Ronaldo/Scemo, mi stavo solo allenando/Sì ora sono cazzi, sono sceso in campo“. Milioni di views su YouTube, un singolo clamoroso come Giovane fuoriclasse, una spocchia positiva, la Sto Records di Ghali (presente come featuring insieme a Sfera Ebbasta e Drefgold): queste le premesse per 20, il disco d’esordio del trapper salernitano Capo Plaza20 è un disco scritto da un ventenne, diretto a un pubblico di ventenni: l’erba, la gang, la microcriminalità, le scarpe e i vestiti, gli amici che non ce l’hanno fatta, i soldi e il successo e il volersi prendere tutto, gli infami, le ansie. Dietro a quelli che potrebbero apparire come i soliti cliché del genere c’è però un senso di giovane e sincera fame mista a rabbia, un percorso e non un personaggio costruito. Ciò non toglie comunque che, lungo le 14 tracce, l’attenzione cali proprio a causa della ripetizione delle tematiche, di un vocabolario non propriamente ampio, di una produzione non varia. 20 è un buon debutto su cui lavorare, un disco positivo per il genere: è una mezzora di qualità e corsa in una partita di campionato, di certo non un esordio con tripletta in finale di Champions League.

Voto: 6.0 – Simone Zagari

Unknown Mortal Orchestra – Sex & Food

Ormai il funk è sdoganato, adesso è il turno del rock. Ecco, il rock è esattamente quello che era il funk cinque anni fa: un genere intoccabile

Il solito provocatore ambizioso, quel genietto di Ruban Nielson, che se ne frega di essere uncool e con effetto sorpresa affida il ritorno sulle scene degli Unknown Mortal Orchestra proprio alle chitarre hard rock di American Guilt. A scorrere i titoli dei brani di Sex & FoodMinistry of Alienation, Everyone Acts Crazy Nowadays, la stessa American Guilt – viene quasi da chiedersi se gli UMO abbiano deciso di uscire il disco politico, dopo il menage à trois oggetto del precedente Multi-Love (2015). Sex & Food, invece, va preso alla lettera: canzoni che sono come il buon cibo e il buon sesso, semplici e primordiali. Impossibile non canticchiare l’ipnotica e zuccherosa Hunnybee, non lasciarsi cullare dal morbido fingerpicking di The Internet of Love (That Way), o non muovere il piedino sulla soft disco di Everyone Acts Crazy Nowadays. “Credo che molti si avvicinino ai dischi degli UMO per ottenere un po’ di sollievo da tutta questa follia. Sex & Food è fatto apposta per farle sentire meglio nella vita di tutti i giorni”, ha detto Nielson in un’intervista a The Fader. Insomma, quello che gli UMO vogliono darci sono semplicemente positive vibes: una dimensione spazio-temporale parallela dove ottenere un po’ di tregua da questi tempi duri e ansiogeni.

Voto: 7.1 – Ilaria Procopio

The Weeknd – My Dear Melancholy,

Per me The Weeknd è sempre stato quello dei mixtape d’esordio: quello che cantava di sesso, droga, alcol, antidepressivi; non come apice dello stile di vita da ricco Starboy radiofonico, bensì come palliativi, consciamente inutili, di una depressione costante. L’unico modo per scacciare i demoni era scrivere dei pezzi che esorcizzassero il dolore intrinsecamente radicato nell’Abel ventenne. Poi sono arrivati i soldi, la fama, la svolta con un pezzo incentrato sull’amore per la cocaina (I Can’t Feel My Face) che diventa sottofondo di pubblicità, base per i balli di gruppo al mare, ritornello da canticchiare per grandi e piccini. La depressione, però, non era svanita, era solo sopita, e ci ha pensato il break-up con Selena Gomez a riportare tutto a galla. Sei tracce soltanto, zero promozione, testi che fanno esplicito riferimento a momenti di vita vissuta con la (le?) ex tra malessere ed erotismo esplicito, mood fumoso e produzioni puntuali nella loro pacatezza (Daft Punk, Gesaffelstein, Skrillex). Di certo My Dear Melancholy, non è al livello della trilogia di debutto (di cui sembra uno spin-off), non tanto per qualità quanto più per “effetto sorpresa”, ma fa piacere ritrovare un Abel ispirato nella sofferenza, sua fedele compagna, memorandum sulla sincerità della propria arte. Quella virgola in fondo al titolo, poi, sembra un to be continued

Voto: 6.5 Simone Zagari

Editors – Violence

Esistono due tipi di recensione possibile per Violence: una se si parte ritenendo gli Editors un gruppo pop, un’altra se si parte ritenendo gli Editors un gruppo indie. In entrambi i casi il lavoro non può essere soddisfacente. La nuova stagione della band di Tom Smith li trova a ri-flirtare pesantemente con l’elettronica come non accadeva da In This Light and On This Evening. Qui troviamo però gli Editors nella loro veste più tamarra e pacchiana possibile, complice l’apporto dell’artista elettronico Blanck Mass alla co-produzione. Nove tracce scorrono senza lasciare nulla a chi le ascolta: a partire da Cold passando per Nothingness fino a Belong, non si capisce quale sia l’urgenza comunicativa e se ce ne sia una. Tom Smith canta “we wait in line for nothingness” e la sensazione è che ci troviamo davvero davanti a un qualcosa di nullo. Ridondante e barocco, Violence si perde spesso in outro troppo lunghi e privi di incisività (Violence, Counting Spooks), colpa anche a delle lyrics che non catturano mai l’attenzione. Il disco presenta comunque una traccia ben riuscita: il singolo Magazine. Peccato che quasi nulla sia alla sua altezza, nemmeno il rifacimento di un classico live come No Sound But The Wind, che qui viene caricato eccessivamente perdendo la sua semplice efficacia primigenia. Complice anche un artwork brutto ad essere buoni, risulta davvero difficile pensare che gli Editors adesso siano questo; band mai uguale a se stessa sì, ma ciò inizia a non essere più un pregio: chi sono veramente gli Editors? Probabilmente non lo sapremo mai. A dispetto delle grandi arene che riescono a riempire, sembra ormai di assistere ad una caduta libera che ricorda tanto quella di un altro gruppo made in UK che inizia per C.

Voto 4.0Eleonora Ducci

A$AP Rocky – Testing

La nube quasi sparisce nel nuovo disco di A$AP Rocky, Testing, nel quale l’artista Newyorkese quasi abbandona le atmosfere cloud pur di mettere i piedi in terra, forse per via del quasi dovere che lo spinge a trovare il respiro sobrio almeno per un momento e ricordare i cari passati a lui. Nel suo terzo disco, Flacko sembra voler spingersi oltre l’idea di impressionare con lo sperimentalismo ma, anzi, si sente di tuffare spesso nella realtà. Voler essere più diretto non ha però portato ad un insieme fluente, finendo un disco che può apparire confuso, formato però, da brani che diversi meriti li hanno. Spiccano per singolarità tra i featuring i due a clima lo-fi, Calldrops Hun43rd. In risalto il primo che vede, direttamente da dietro le sbarre, Kodak Black, il quale, con un solo minuto di tempo al telefono racconta il momento dell’arresto e il dolore della perdità del figlio. Queste collaborazioni sono poi tra i punti cardine dell’album. Se fatte per rappresentare la propria realtà (la già citata collab con Dev Hynes per Harlem e la hit con Skepta come ponte New York-Londra), anche i featuring più astratti come i due con Frank Ocean non deludono le aspettative. Fukk Sleep idem che segna il ritorno di FKA Twigs con l’aiuto degli MGMT, diventa forse il brano che meglio ricorda i precedenti album e segnato dal flow tipico. Storce il naso invece il singolo anteprima che suona Porcelain di Moby, il quale non eccelle, pur rimanendo nelle giuste tematiche seguendo l’affezione a New York e al proprio gruppo, risultando fuori posto. E proprio l’impressione di avere davanti un lavoro discontinuo grava, forse perchè, come ha ammesso lo stesso autore, bisognerebbe prendere questo lavoro come un collaudo e fase che comunque non manca di qualità.

Voto 6.5 – Claudio Carboni

Courtney Barnett – Tell Me How You Really Feel

In Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit, Courtney Barnett abbiamo imparato ad amarla per i suoi minuziosi quadretti di vita quotidiana imbevuti di ironia e intelligenza (e per le chitarre, ovviamente anche per le chitarre). In Tell Me How You Really Feel le qualità inconfondibili del suo songwriting ci sono ancora: nessun filtro, nessuna indulgenza e nessuna affettazione, solo tanta umanità e tanta franchezza. Rabbia e rassegnazione (Nameless, Faceless, Crippling Self-Doubt and a General Lack of Self Confidence) ma anche accettazione e reinvenzione di sé stessi (Need A Little Time): sono questi gli ingredienti di un album che è soprattutto un manuale di self-help, una guida per sopravvivere in questo presente un po’ cupo, un supporto per qualsiasi stadio di tristezza e di azzeramento di autostima. Courtney Barnett serve sul piatto l’indie rock più classic e 90’s che conosciamo e una dose notevole di empatia: “You don’t have to pretend you’re not scared / Everyone else is just as terrified as you” (ci rassicura nell’introspettiva, nonché pezzo migliore dell’album, Charity), “Keep on keepin’ on, y’know you’re not alone” (ci dà un’altra pacca sulla spalla in Sunday Roast, che va a chiudere il disco in maniera quasi dream-pop). Tell Me How You Really Feel manca dell’energia e del piglio selvaggio dell’ esordio, ma è pieno dei consigli che tutti vorremmo avere quando attraversiamo un momento un po’ così, come se arrivassero dall’amica più onesta che ci possiamo sognare.

Voto 7.0Ilaria Procopio

DJ Koze – Knock Knock

Senza girarci attorno: Dj Koze ha creato un capolavoro. La psichedelia onirica e visionaria di Amygdala (2013), a distanza di cinque anni evolve verso nuove contaminazioni di genere, ben rappresentate – nell’artwork di copertina – dalle ramificazioni di un tronco che cresce in primo piano su un cielo all’alba. Il Dj e producer di Amburgo è un artista completo, sapiente, fine cultore musicale a tutto tondo (avendo persino avviato la propria carriera come parte di un gruppo hip hop), infondendo nei propri lavori un raffinato e variegato studio del suono, abilmente calibrato sulla ritmica del dancefloor. Stefan Kozalla incastona nel suo ultimo LP gemme preziose – le collaborazioni con José González, l’ex Moloko Róisín Murphy e l’astro nascente della Pampa Records Sophia Kennedy, tracciando una demarcazione dal convenzionale e costruendo un risultato magnifico, emozionale, distante dalla scheda tecnica di un album linearmente elettronico. Knock Knock commuove per la sua intensità delicata e melancolica sapendo morbidamente fluire entro angoli folk e indie, per sfociare in una più ampia deriva dance e house. L’architettura del disco è magistrale, riflessiva, articolata su molteplici piani sonori e sentimentali (si ascolti il campionamento del Bon Iver di Calgary in Bonfire, o il cuore soul di Gladys Knight nella hit disco Pick Up); Kozalla dà forma all’astrattezza di un’idea incantata, alla luce che sorge dalle radici del beat per tingersi di colori avvolgenti, toccando il punto più alto dell’atmosfera in un crescendo melodico che esplode brillando, lasciando occhi ed animo dei suoi spettatori estasiati.

Voto 8.0Laura Caprino