In questo 2018 sono usciti molti album che hanno sondato, in maniera diversa e sempre interessante, più o meno esplicitamente, la contemporaneità e il ruolo dell’uomo nella società, in questo preciso momento storico. Penso ai Low, a Oneohtrix Point Never, a SOPHIE, agli Amnesia Scanner e a Yves Tumor, e starò sicuramente dimenticando qualcuno. Ormai l’anno è quasi terminato, eppure continuano ad essere pubblicati lavori di artisti che provano, tramite l’arte, a risvegliare le coscienze dal torpore. Qui sotto ve ne racconto altri 6.

Objekt – Cocoon Crush

I DJ set di Objekt sono esperienze difficilmente paragonabili a quelle dei suoi, per quanto illustri, colleghi (forse solo l’amico Call Super ci si avvicina, e non per nulla è facile trovarli impegnati in memorabili back-to-back da 6 o più ore). Estro nella selezione, tecnica suprema nel mixing, mai un secondo d’immobilità. Tutte qualità cristalline che vengono qui traslate in studio, come mai prima d’ora, nel nuovo Cocoon Crush, fuori per PAN. Tracce relativamente brevi, incisive, ma estremamente varie. Una techno così leftfield, che a conti fatti techno non è più, si screzia di elementi naturali e rumorismi che ci trasportano ora in una foresta notturna, ora nello spazio aperto, ora nel ventre di una creatura viscida ma benevola. I ritmi sono spezzati, i bassi sinuosi, gli ambienti sinistri ma familiari, le melodie sbilenche eppure catchy, liberatorie, così come le poche, lente, e bellissime danze. Objekt è libero nella composizione, distrugge qualsivoglia schema per seguire solo il suo infinito talento. Valore aggiunto e anzi focale del lavoro è un sound design così oculato da rendere Cocoon Crush un disco da manuale eppur mai asettico, il miglior esempio di cosa significhi, nel 2018, una produzione perfetta che mantenga però intatta l’anima del creatore. Uomo e macchina collaborano per far emergere colori vividi dall’oscurità: la cura per i dettagli è maniacale ma non suona mai affettata, ognuno tra gli infiniti elementi che compongono i pezzi trova il suo posto senza sgomitare; sembra l’intreccio narrativo di un grande classico della letteratura del futuro. Cocoon Crush è un sexy androide mutaforma, un blob extraterrestre, un buco nero che pulsa di fronte a voi, spaventoso e al contempo intrigante proprio come il suo richiamo. Una volta liberata la mente e allungato l’indice verso di esso ne verrete totalmente risucchiati. Sarà un’esperienza allucinata, la realizzazione di una tanto agognata fuga dalla realtà, una sensazione fantastica.

Tim Hecker – Konoyo

Classico disclaimer doveroso prima di parlare di Tim Hecker: non sono mai stato né mai sarò oggettivo nei confronti del compositore canadese. Se dovessi scegliere, pistola alla tempia, un artista, io sceglierei lui. Nel corso degli anni (qui, qui e qui) mi sono ritrovato a parlare di droni che slanciano gli animi al cielo e distorsioni che opprimono il petto, di tempo e attenzione da donare all’opera, di abbandono catartico nell’ascolto, di storie da godere senza interruzioni. Con Konoyo (che segna il ritorno su Kranky) vale ancora quasi tutto (ambient, shoegaze, drone, i titoli dei 7 momenti che formano un emblematico haiku), ma è stato diverso. Konoyo non è arrembante, non destabilizza con rumorosa prepotenza, non ti stringe la gola al primo ascolto. Il lavoro si districa sul lento incedere di strumenti della tradizione orientale suonati dalla Tokyo Gakuso Ensemble, mescolati a sintetizzatori post apocalittici, spazializzati da riverberi e delay, e a qualche incursione cameristica. I soundscape e la manipolazione sonora sono magistrali, eccellenti nell’unicità del sound heckeriano, ma, direte voi, “banalmente è tutto qui”. A livello di sovrasenso, però, il nuovo lavoro trasuda inquietudine, male di vivere, si trascina come un vecchio stanco e consapevole del disastro, come un teenager con gli occhi fissi su uno schermo. Lo spleen è talmente straziante, angosciante, da indurre infine alla reazione. Konoyo significa “questa vita”, e questa vita va affrontata, bisogna farci a pugni; occorre combattere quel non-ben-identificato mostro sputa-fuoco in copertina, per poi leccarsi le ferite, sconfitti, da soli. La musica di Tim Hecker, ancora una volta, ci schiaffa in faccia la nostra esistenza, ed è proprio in questo che il canadese non ha eguali.

Vessel – Queen Of Golden Dogs

Non so cosa ho ascoltato, ma ne voglio ancora. Ci sono voluti quattro lunghi anni per il ritorno di Vessel e ne è valsa la pena. Queen Of Golden Dogs, pur uscendo sempre su Tri Angle, si scrolla di dosso tutti gli “industrialismi” del precedente Punish, Honey e rielabora quel mood oscuro, dissonante e disagiato in chiave totalmente differente e originale. Vessel continua sì ad indagare il suo io più interno, estrapolandone le contraddizioni, il disagio, le radici e le aspirazioni, ma lo fa in veste di folle giullare di corte. Questa autoanalisi si traduce musicalmente in nove componimenti che, come pare dai titoli, vorrebbero essere canzoni d’amore, ma che a conti fatti suonano come un grido d’aiuto. Quartetti d’archi intonano antiche melodie, cori sacri inscenano strambi rituali, un musico drogato suona una ballata al clavicembalo, le dame danzano in estasi ignare di ciò che accadrà. È qui che irrompe Vessel, direttamente dal futuro, arpeggiando senza tregua i suoi synth, accelerando il passato e il presente, demolendo il castello del re con distorsioni e percussioni  inaspettate, talvolta veri e propri banger. Il presente si fa Medioevo e l’io, che per natura tende a qualcosa di nuovo, cerca di fuggire dalla torre in cui è rinchiusa la sua mente. Nella sua apparente follia, Queen Of Golden Dogs rappresenta un piccolo tesoro romantico, è la rappresentazione di cosa possa generare una mente che si sente intrappolata e che smania per esprimersi.

Marie Davidson – Working Class Woman

Poetessa, producer, musicista, lavoratrice. Avevo già avuto il piacere di vedere Marie Davidson dal vivo suonare qualche pezzo nuovo e già mi aspettavo un bel lavoro, ma difficilmente potevo presagire un disco così ben prodotto, così ben a fuoco, così maturo. Se nel precedente Adieux Au Dancefloor l’artista salutava il club, in questo nuovo Working Class Woman (fuori su Ninja Tune) ci ritorna con visione critica, analizzandolo da addetta ai lavori. Tramite i suoi tanto cari spoken-word tra l’ironico e il grottesco, in inglese e in francese, Davidson analizza la club culture nella sua totalità, con piglio intelligente, intimo e mai morale. Ce n’è per tutti: i fan e il loro stato psicofisico spesso alterato durante i live, la solitudine d’artista in tour, la psicoterapia, una potenziale vita alternativa a quella da musicista, il guadagnarsi il pane dalle sette note. È un monologo che si districa tra il pop, la techno e l’ambient, senza neanche rendersi conto dove finisca uno e inizi l’altro. Il filo conduttore è rintracciabile nell’amore per il calore analogico, da arpeggi modulari fuori tonalità a bassi corposi, passando per pad avvolgenti. Le drums sono dritte, incisive, ma mai piatte. Marie racconta le contraddizioni del clubbing e intanto fa ballare, e balla lei stessa, dimostrando uno spessore artistico e un coraggio lodevoli, rari. Si può dire art-house? Art-pop? Avant-techno? Future-qualcosa? Dite quel che vi pare, ma ascoltatevi Working Class Woman e seguite Marie come fosse la Libertà che guida il popolo.

Demdike Stare – Passion

Anno del Signore 2018, “post-clubbing” e/o “deconstructed club music” sono usati così a sproposito che sembrano ormai aver perso il loro senso originario, divenuti ormai una poserata in pasto al gregge. Sembrano partire da questa premessa, i Demdike Stare, nel momento in cui accendono le macchine per comporre Passion, questo doppio EP fuori, ovviamente, per Modern Love. Sembrano proprio voler far capire chi comanda e, in questo senso, non penso sia un caso che la traccia manifesto -nonché la più bella- del lavoro si intitoli proprio At It Again. Nulla di nuovo, intendiamoci. Il discorso viene ripreso dove era stato lasciato dai vari Testpressing e dal micidiale Wonderland: ritmiche quasi innaturali e spezzate tra jungle, break e footwork, una rivisitazione del clubbing made in UK, tra ambientali oscure e interstizi vocali figli dell’idm più schizofrenica. Il ballo è irrefrenabile, liberatorio, e si genera laddove, sulla carta, sembrerebbe impensabile. È la ricetta contemporanea più scontata, è vero, ma nelle mani di Canty e Whittaker suona che è una meraviglia.

Puce Mary – The Drought

Rumore bianco e rumore rosa come spilli nelle orecchie, droni neri e fumosi come un tallone sullo sterno, spoken-word come coscienza ancestrale che ammonisce, le basse frequenze di un ambient oscuro e sperimentale come quadro orrorifico del reale. The Drought di Puce Mary è sì il suo debutto su PAN, ma è ovviamente un’opera già pensata per una rappresentazione teatrale. È musica fisica che impone una fruizione concreta, è dolorosa e come tale va condivisa per essere sopportata. La genesi dei pezzi, però, non è mai casuale. Tutto è organizzato, tutto trova il suo senso nella visione d’insieme. C’è tutto l’umano dolore, il disperato memento mori in queste tracce. La coscienza si smuove e rigurgita grida disperate, strozzate però in gola. The Drought è un Inferno dantesco e Puce Mary la nostra guida.