Da qualche anno il nome di Dario Faini, mente dietro al progetto Dardust, si sta facendo sempre più largo nella scena musicale italiana. Complici sono sicuramente un ambient cinematico dall’enorme potenza evocativa, in primis, racchiuso in 7 e Birth, ma anche nell’ottimo spin-off della trilogia (ad oggi ancora da completare) Slow Is. Aggiungiamoci il successo al SXSW, concerti importanti (il prossimo, il 28 giugno, al Castello Sforzesco di Milano, per dire), e una carriera da songwriter per Universal, e il gioco è fatto.
Noi abbiamo incontrato Dario nella cornice intima di Zaboo., nuovo evento milanese che organizza concerti raccolti, quasi privati, in acustico. Proprio in questa atmosfera, tra una tartina e un bicchiere di vino, dopo un live tanto minimale quanto toccante, abbiamo chiacchierato con Dario della sua doppia natura di songwriter (per esempio, l’avete sentita Pamplona, vero?) e di Dardust, appunto (per esempio, l’avete sentita Birth, vero?), della situazione attuale della musica e del pop in Italia, di David Bowie, di cinema e di tanto altro.

DW: Ciao Dario! Com’è stato suonare così, da solo al pianoforte? Un tuffo indietro nel tempo?

D: È stato come tornare a quando facevo i saggi, quando studiavo pianoforte all’Istituto Spontini ad Ascoli Piceno. Il piano solo non lo facevo veramente da tanti anni. Quando salgo sul palco come Dardust mi porto dietro uno show di luci, fumo, visual, altri due musicisti, un quintetto d’archi; cerchiamo di raggiungere un alto livello di epicità, diciamo. Ritrovarmi al pianoforte, da solo, mi mette a nudo, mi sono sentito indifeso ma anche emozionato.

DW: Continuando a parlare di origini, dove nasce Dardust? Prima, durante il live, hai fatto riferimento a un immaginario “spaziale”, a Marte, e pronunciando Dardust non posso che pensare a Ziggy Stardust. Quanto c’entra David Bowie nel tuo progetto?

D: Essendo fan di David Bowie, con tutta l’umiltà del mondo, ho voluto che il mio nome fosse un tributo, un omaggio, alla sua figura artistica e, in particolar modo, all’immaginario spaziale che Ziggy Stardust (sia il personaggio che, ovviamente, quell’album) si porta dietro.
Mi piaceva che un progetto di origine pianistica, classicamente collegato a “nome e cognome”, potesse avere un nome più evocativo e si liberasse un po’ dagli standard.

DW: E ora la classica domanda che ti fanno tutti: conosciamo il Dario autore. Hai scritto per Thegiornalisti e Fabri Fibra, per i talent, per Levante, Renga, Mannoia, De André. Come si concilia questo mondo con Dardust e quale dei due lati della medaglia è nato prima?

D: Io ho iniziato, in origine, con elettronica molto commerciale, ho fatto vari esperimenti, poi ho fatto teatro e, successivamente, sono diventato autore – songwriter – per Universal. Dopo tanto tempo speso mettendo la creatività al servizio di altri mi son detto che era giunta l’ora di fare qualcosa di mio perché, sempre a dare dare e dare, un minimo di energia deve comunque tornare indietro per equilibrare il tutto. Quindi ho pensato di farlo in un modo che fosse mio, originale e personale. In un mondo musicale in cui esplodono le parole e il cantautorato (guarda anche il mondo “indie” contemporaneo) ho fatto la scelta più impopolare e difficoltosa, rimettendomi anche a studiare pianoforte fino a sei ore al giorno, creando un progetto che si discostasse dai trend.
E questa scelta la rifarei mille volte e sai perché? Sai qual è la cosa bella? Che io, ora, mi immagino a settant’anni su un palco a suonare il pianoforte.

DW: Per te, la parola, anzi, dal tuo punto di vista, l’assenza di parole, è un limite o una forza?

D: Per me l’assenza di parole è una liberazione. Le parole sono un fardello e a volte vanno a violentare delle melodie meravigliose, aggiungici poi l’italiano ed è facile perdere tutta la bellezza. Alcune melodie non hanno bisogno di parole. Questo è il mio punto di vista ma è ovvio che, a livello di presa sul pubblico, un progetto cantautorale ben inserito nel circuito fa il boom anche e soprattutto grazie alle parole. È stata proprio questa, però, la sfida di Dardust: riuscire ad arrivare e a comunicare qualcosa anche ad un pubblico poco avvezzo all’assenza di testi e, rispetto alle premesse, abbiamo fatto tanto, ma comunque non ancora abbastanza. Speriamo di poter aprire le porte per altri progetti, fungendo un po’ da pionieri di una nuova scena sul territorio nazionale.

DW: Ma tu ti senti prima autore o prima Dardust? E, a livello prettamente compositivo, come agisci? Ti metti al piano e poi decidi se ciò che ne esce andrà a Levante, a Renga, a Dardust, oppure l’approccio è proprio diverso in partenza?

D: Quando compongo per Dardust mi siedo al piano e faccio andare le dita. Quando scrivi delle melodie per voce è tutta un’altra cosa, anche perché ho quasi sempre con me in studio la persona per cui sto scrivendo. Quindi, fondamentalmente, ci indichiamo la via a vicenda, ci incanaliamo in un percorso che è comune già in partenza. Con Dardust, invece, posso avere maggiore libertà. Sono due cose completamente diverse, ma sono sempre io.

DW: Cosa è per te “pop”? Cosa definiresti “pop”? Ciò che passa in radio, ciò che vivi nei panni di autore, oppure anche una melodia che potenzialmente può funzionare da sola?

D: Ti faccio un esempio concreto. Prendi delle melodie, per esempio, degli Afterhours; queste potrebbero essere pop, nel senso di “popolari”, popular, ma il contesto, la cornice, il sound design della band e tutto quello che c’è intorno rendono poi diverso il risultato finale. Al contrario, io stesso ho scritto melodie partendo da input come Björk e Woodkid, che di pop in senso stretto hanno poco, ma che poi, inserite nel circuito, si sono evolute a livello proprio di resa sonora, come se fossero passate attraverso un filtro prima di finire in radio.
Quindi, in definitiva, “pop” lo può diventare una cosa che, in partenza, non lo è, oppure viceversa, una cosa che nasce pop si può allontanare dal pop come lo intendiamo generalmente.

DW: Dato che vivi la situazione musicale ambo i fronti, dal pop che sfonda le radio alla crescita di nicchie che scavano dal sottosuolo, cosa vedi nel futuro? Quale è la tendenza secondo te?

D: Vedo sicuramente che, dall’indie, il percorso per arrivare al mainstream si è ristretto, si è velocizzato, i tempi sono brevissimi rispetto al passato, agli anni ‘90. Oggi ci sono artisti che fanno i tour nei club piccoli, poi nei club grandi e, dopo tre anni, nei palazzetti. Possiamo dire che la gavetta è dopata, soprattutto nel contesto cantautorale che è esploso recentemente.
Ma questa è una fortuna secondo me.

DW: Tu dici? Non c’è il rischio di bruciare e scomparire nel giro di pochissimo?

D: Ah, no, aspetta. Io sto parlando di come la musica indipendente (in quel senso lì) vada a dare nuova linfa vitale alla sfera mainstream. Quindi, da questo punto di vista, è sicuramente una situazione positiva che crea aria fresca. C’è ovviamente il rischio di bruciare le tappe, certo, ma questo è da vedere tra qualche anno.

DW: E Dardust da cosa è contaminato? Abbiamo parlato un po’ del tuo percorso prima, ma cosa ti influenza? Parlo della fase compositiva, cosa è per te fonte di ispirazione? Proprio a livello musicale: c’è l’elettronica, la classica, e poi? È un tuo percorso, sono ascolti o che altro?

D: Questo è un bel casino. Sono ovviamente bipolare perché se riesco a fare Dardust e, allo stesso tempo, canzoni pop, non c’è altra spiegazione. Io ho sempre amato le figure camaleontiche, su tutti David Bowie come abbiamo detto prima. Ma questo non si vede solo nella convivenza tra songwriter e Dardust, ma anche all’interno di Dardust stesso: a volte ci sono influenze di classicità minimalista che possono ricordare Max Richter, Ólafur Arnalds, talvolta il falsetto dei Sigur Rós, altre un’elettronica più “spinta” o un pop più ricercato; sono onnivoro con gli ascolti.

DW: E le influenze meno concrete, a livello di immaginario?

D: Io Dardust lo definisco un progetto “pop-cinematografico-strumentale” perché per me il cinema è fondamentale. Al di là di tutti i fantasy e i fantascientifici degli anni ’80… cioè, per farti capire, se mi avessero detto di sonorizzare Stranger Things sarei impazzito, ecco. Nei miei live ci sono inserti di Moroder da La storia infinita, di John Williams con E.T., c’è tutto quello che mi ha sempre colpito, quest’atmosfera sognante a livello visivo e uditivo che mi porto dietro da sempre.

DW: E i luoghi? Un disco registrato a Reykjavík, uno a Berlino, il prossimo a Londra. Come pensi ti influenzerà questa città?

D: Certo i luoghi influiscono tantissimo nella fase di scrittura e produzione di un disco. Non lo so come andrà a Londra perché è facile cadere nella retorica e finire a fare un polpettone agli Abbey Road Studios. Non escludo nemmeno l’idea di andare in Turchia a scriverlo e poi andare a produrlo a Londra, per esempio. Mi piacerebbe spostarmi dal nord magari e andare in situazioni differenti, con diversi input, con un fascino mediterraneo, magari anche in Sicilia, non so. Vedremo.

DW: Hai già qualcosa in programma per il futuro, oltre al prossimo disco? Se, come dici, ti vedi su un palco ancora a settant’anni e anche di più, avrai in mente un sacco di cose, immagino.

D: Ho in mente di fare un corto di 30/40 minuti con un regista sul genere di cui parlavamo prima, fare la sincronizzazione e far uscire l’album con già il film. Ne parlo da due anni, prima o poi lo farò, è quello che ho in mente per ora. Prima il disco, poi il corto, poi ancora mille progetti.
Ho le idee chiare ma allo stesso tempo molto aperte al futuro. Non mi voglio fermare.

DW: Beh, in bocca al lupo allora!

D: Crepi! No, merda! Si dice “viva!”. Vabbè.