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La sparizione della dicotomia tra “noi” e “loro” all’interno della critica musicale non è avvenuta in una data precisa. Sono cose che misteriosamente accadono, come la comparsa dei biscotti Togo al cioccolato. Tutto è cambiato: prendete la homepage di Pitchfork, qualche giorno fa.

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Grab via Pitchfork.com

Notato qualcosa di strano? Ok, il faccione di Adele in primo piano magari non aiuta. Però no, probabilmente ammetterete che nulla in questa foto vi farebbe sospettare un attacco hacker da parte dell’ISIS o della Corea del Nord ai danni seconda testata musicale preferita.
Solo qualche anno fa però, questa stessa pagina si presentava in maniera molto diversa. Se prima infatti la critica si occupava in maniera preponderante di band come gli Strokes, i Radiohead e i Wilco, negli ultimi anni abbiamo osservato una interessante inversione di tendenza. Mano a mano artisti sempre più “commerciali” (nel senso tradizionale del termine) hanno incominciato ad accaparrarsi le attenzioni e i favori dei critici. Questa rivoluzione copernicana nel mondo nella critica musicale ha preso il nome di Poptimism. 

Crasi formata dalle parole Pop + Optimism (e chi l’avrebbe mai detto?) questo fenomeno ha dato luogo a una completa rivalutazione, in termini di pubblico e di critica, di quella che fino a poco tempo fa veniva definita “solo” musica pop. Un cambiamento epocale, iniziato con Beyoncé e Lady Gaga, portato avanti da Taylor Swift e definitivamente esploso quest’anno con Miley Cyrus, Grimes, Justin Bieber e ora anche Adele.

I più snob potranno vederci un “imbarbarimento” dei gusti, oppure etichettare le maggiori testate musicali dell’Internet come “vendute” al mercato. In realtà il discorso è più complesso e profondamente radicato nell’ascesa della cultura 2.0. Il poptimism nasce in contrapposizione allo stradominio della musica rock, prodotto privilegiato dalla critica negli ultimi 50 anni. Secondo l’opinione generale il rock (prendete questa parola con le pinze) è stato per lunghissimo tempo considerato l’unico genere musicale mainstream a godere di una dignità artistica. Ora come ora però, ci troviamo a vivere una sorta di paradosso: chi avrebbe mai pensato che il bambino con il caschetto biondo di Boyfriend sfottuto da mezzo mondo potesse produrre singoli sì commerciali, ma con un appeal più ampio della banale canzonetta preconfenzionata? Che si tratti di un delirio da post-ironia o di un cambiamento duraturo nel modo in cui parliamo di musica non ci è dato saperlo, fatto sta che Miley Cyrus presenta gli MTV Video Music Awards e Ryan Adams pubblica un disco di cover di Taylor Swift.

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Cerchiamo di vederci un po’ più chiaro. Sin dalla sua nascita il web 2.0 prometteva qualcosa di mai visto nella condivisione e nella diffusione di contenuti. Secondo i precursori di questa filosofia, l’uomo si sarebbe finalmente slegato dalle catene dell’ignoranza rappresentata dal consumo forzato di cultura massificata. Malgrado tutto ciò non è avvenuto, o perlomeno è avvenuto solo in parte: di fatto, è stata la cultura di massa che ha inglobato l’enorme spazio virtuale  a nostra disposizione. Piuttosto che dividersi in tante piccole bolle di cultura specializzata nell’universo di Internet si è venuta a formare una bolla enorme, che con una massa gravitazionale mastodontica ingloba ed assorbe tutto ciò che le ruota attorno. Per questo la commistione tra generi, pratiche e influenze non è mai stata così comune come ora. E per questo il confine stesso di cosa è arte e cosa non lo è non è mai stato così labile. Questo discorso, molto complesso già di per sé, è ulteriormente complicato dal fatto che questo enorme ammasso di cultura, oltre ad essere indipendente e a sfuggire al controllo dei singoli, risponde anche alle leggi di mercato.

Questo fatto è spiegato molto bene in The Pernicious Rise of Poptimism articolo del critico musicale del New York Times Saul Austerlitz. Egli infatti afferma che:

It is no accident that poptimism is an Internet-era permutation. Obsessive coverage of stars like Drake and Justin Bieber drives Web traffic in a way that more judicious, varied coverage of the likes of, say, the Tuareg guitar wizard Bombino generally cannot. Once, we learned about new music by listening to the radio, reading Spin or watching MTV. Today MTV is largely a reality-TV channel, and most people prefer their iPods or Spotify playlists or Pandora stations to fusty radio programming.

È lampante infatti che uno dei paradossi di tutta questa faccenda sia il fatto che si sia venuto a creare un circolo per cui la fama genera consenso mediatico, questo genera traffico in rete, e quindi guadagno, e che il guadagno aumenta a sua volta la fama dell’artista, perpetuando il ciclo. I toni dell’articolo di Austerlitz però si fanno a mano a mano a dir poco catastrofisti, e la grande intelligenza dietro all’articolo si perde un po’ in una inutile catilinaria, generata forse dalla sensazione di mancato controllo sul fattore (Internet e la società dell’informazione) che ha generato questo processo. La situazione nella realtà non è poi così disperata come viene dipinta e soprattutto, è ancora in divenire. Se non altro, dal punto di vista umano, possiamo apprezzare come gli idoli pop non vengono più irrimediabilmente presi in giro e soprattutto non vengano più utilizzati per creare fittizi termini di paragone tra i gusti delle persone, basati più su un distorto concetto di superiorità intellettuale che su meriti artistici ben definiti.

Questo è senza dubbio un aspetto positivo di tutta la faccenda. Anche perché guardando indietro a solo qualche anno fa, ci renderemo conto che non solo siamo stati partecipi di questo cambiamento, ma l’abbiamo anche voluto in prima persona. Durante gli anni 2000 infatti numerosi artisti, soprattutto scandinavi (e vengono in mente The Knife, Robyn e Annie) hanno saputo prendere ispirazione dalla struttura classica della canzone pop per creare tracce che non avevano nulla a che vedere con ciò che allora era considerato mainstream. Questo processo ha fatto scattare la rivalutazione in chiave ironica dei successi caramellosi e plasticosi degli anni ’90, fino al momento in cui è scattato qualcosa, e ci siamo accorti che quei “guilty pleasures” veri e propri scheletri nell’armadio che ci sforzavamo di tenere nascosti dagli altri non erano poi così “guilty” dopotutto.

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Uno scatto rubato dell’autore (sulla sinistra) durante un tour del suo gruppo K-pop preferito.

La musica, che lo vogliamo o no, farà sempre parte delle nostre vite. Non è solo lei a cambiare però, ma anche il nostro modo di percepirla e tutto il mondo attorno ad essa. L’ondata di poptimism degli ultimi anni è un fenomeno da analizzare e contestualizzare. Forse non rappresenterà il colpo di grazia alla nostra civiltà come pensa qualcuno, ma non è neanche un fenomeno al riparo da qualsiasi critica.

In questo senso, l’onestà di critici e revisori non ha mai avuto un ruolo più importante. Il clamore generato già poche ore dopo l’uscita di un disco non deve essere rappresentativo della qualità artistica del disco stesso, e la riflessione di un critico non deve perdersi nell’immediatezza dei mezzi di comunicazione a nostra disposizione. Il fatto di vivere tempi complicati (come complicati sono tutti i periodi di transizione) non deve essere una scusa: tocca a tutti alzare il livello della propria riflessione, partendo da qualcosa di naturale come la passione verso i propri interessi e verso ciò che si fa.