gomorra

Ciro e Attilio dentro u Mercedès. Tra poco intimidazione e violenza prenderanno forma. Routine, insomma. Ma oltre al classico avvertimento dato ai rivali, oltre i vetri oscurati, ci dicono altro. Sono protagonisti di due epoche diverse. Vecchio e nuovo nel limbo del cambiamento degli equilibri della Camorra. Sono loro a dare lo spunto per questa riflessione sulle musiche di Gomorra – La serie.

Scorrono nel lettore cd le canzoni di ‘Nto e mentre Ciro sembra al Festivalbar, Attilio si sente in un’epoca passata. (Non a caso sarà uno dei primi a morire).

Uno canta e l’altro smorza il volume.

Svecchiato completamente il sound dell’omonimo film, contraddistinto prevalentemente dal folklore e dal colore dei ritmi neomelodici, nella colonna sonora della serie ci troviamo di fronte ad un completo ringiovanimento musicale che si percepisce anche nelle diverse caratterizzazioni dei singoli personaggi. A conferma di questo cambiamento e dell’attenzione che viene data al salto generazionale, per la sigla della serie viene scelto ‘Nto (Antonio Riccardi), non a caso nipote del leggendario Enzo Avitabile.

La vendetta, la faida. Denominatori comuni della musica ascoltata dai guaglioni dei clan.

E così prima di ogni esplosione, prima di ogni morto ammazzato, volano sulle strade all’ombra delle Vele gli enormi macchinoni carichi di rabbia, all’interno dei quali le note dell’ hip hop neomelodico 2.0 ultrastimolano i giovanissimi. La smania del potere cantata da chi non ha niente e vede nell’organizzazione il riscatto ed il rispetto. Ma attenzione, non ci sono alleanze, ma solo la dura legge del taglione (e del business), in ogni tempo vigente, certa ed efficace.

Durante il corteggiamento, invece, ricompare la tradizione. Sentiremo, infatti, l’esibizione di Alessio, star strappacuore delle ragazzine, attraverso la quale il regista vuole mettere in risalto, da un lato lo sfarzo barocco meridionale e dall’altro le inifinite possibilità economiche dei clan, con le quali possono togliersi ogni sfizio. Nessuno può dire di no, dietro lo spettro del Leviatano e con la prospettiva di gonfiare il portafoglio.

Discorso a parte, invece, per i vecchi. Don Pietro Savastano, infatti, canticchia nelle cella della casa circondariale le canzoni che lo tengono attaccato alla sua terra natia e che, con ritmo mediterraneo e latineggiante raccontano di storie d’amore, nascondendo la realtà che circonda la vita della sua famiglia e ricompaiono le tematiche classiche del suono neomelodico. Citiamo il mitico Tommy Riccio e la sua “aggio bisogno e me fa l’amante”, che nel suo testo a prima vista innocente, nasconde – nell’interpretazione distorta che ne dà il boss – il senso di impotenza e di oppressione che, questa volta, infrange l’immunità ambientale del capo clan.

Quanto, poi, alle cd. Musiche queste sono state affidate ai Mokadelic, già protagonisti delle sonorità ambigue di ACAB e di Come Dio Comanda. Scelta assolutamente vincente, che finalmente dà ad una serie italiana un senso di completezza già partito con Romanzo Criminale.

Ed ecco, quindi, l’arrivo – inedito nel genere – dei synth e delle vibrazioni alla JJ Abrams, che si amalgamano alla perfezione con gli spari e con i t’apposstt tra le trincee. Non più sole e colore di panni stesi, ma grigio rimbombare negli spazi morti, metallici e cementificati.

Un enorme mostro biblico elettronico guarda dall’alto Scampia ed i quartieri della guerra; della scissione. Intimorisce ed opprime questo scroscio di suoni cupi ed apocalittici. I Mokadelic trasformano in cyber post-rock ed elettronica sperimentale i presagi di morte; le ansie ed i drammi interiori che regnano negli uomini dell’associazione. Lo spettatore non sorride più, ma viene catapultato fianco a fianco del killer e percepisce direttamente questi sentimenti di oppressione ed invadenza incontrollata. Ramificazioni di un sistema, che avvolge e sconvolge ogni aspetto della vita quotidiana.

Scorre, Scorre veloce senza barriere nei vicoli, come un flusso di sangue scuro sul tappeto di cemento.

Consiglio per l’ascolto: non cercate di tradurlo ed adattarlo in italiano. Il dialetto napoletano, riconosciuto dall’ Unesco come vera e propria lingua va preso così. Senza sottotitoli.

“Vogl benessr ind a stu cess”