Bisogna mettere in chiaro due punti prima di entrare in questo nuovo album dei Tame Impala: la prima è che secondo me sono simpatici, la seconda è che sicuramente fanno uso di droga.

Lonerism più che un album è un viaggio nel subconscio umano, dove tutto è nulla e nulla è tutto, quindi è meglio partire preparati all’ascolto, dato che una volta dentro, è molto difficile uscirne.
Di sicuro molto più pop, ingenui e “bambineschi” rispetto ad Innerspeaker, il primo album della band uscito nel 2010, i Tame Impala guidati dal pavido ed asociale Kevin Parker sorprendono con questo secondo album, che definire psichedelico è riduttivo.

Si parte con la quasi ossessiva e spaventata “Be Above It”, ritmiche decise di batteria che a sprazzi si fonde nel riverbero, continuando con i sintetizzatori spaziali di “Endors Toi” per poi arrivare finalmente ad “Apocalipse Dreams”.
Questo è già il punto di svolta dell’album, dato che la canzone si può dividere in due parti ben definite: nella prima sono gli anni ’60 dominati dai Beatles a prevalere, che improvvisamente si fermano per lasciare spazio a chitarre più sensibili ed introspettive e sintetizzatori sempre più onirici.
Il cavallo di battaglia dell’album è proprio quel lato “romantico” che viene fuori con le traccie seguenti, quando ormai si è immersi nell’immaginazione più pura con canzoni come “Keep On Lying”, “Why Won’t They Talk To Me?”, “Feels Like We Only Go Backwards” e “Music To Walk Home By”, gioielli spensierati ma allo stesso tempo malinconici che inquadrano Lonerism nell’unica dimensione possibile: la riflessione sullo spazio infinito e l’ansia che questo comporta.
Si sente infatti che il nostro Kevin ha scelto un’ambientazione più solitaria per scrivere molte delle canzoni presenti nel sophomore, passando molto più tempo con sè stesso rispetto a quanto facesse prima.
A svegliare l’ascoltatore per riportarlo sul nostro pianeta ci pensa il singolo bomba “Elephant”, riff di chitarra come se stessero suonando i Black Sabbath sotto effetto di funghi allucinogeni con John Lennon alla voce, batteria incalzante e ritmo allo stato puro, un vero tuono fragoroso che si scaglia sulla solita spiaggia dove i genitori portano i figli nell’età dove tutto è possibile e niente è ancora deciso.
In “She just won’t believe me” e “Nothing ever happened so far has been anything we could control” si ritorna a respirare malinconia, mascherata benissimo con esplosioni strumentali sospese e sognanti.
La vera sorpresa però è la traccia finale, “Sun’s coming up (Lambington)” dove Kevin si inventa un pianoforte saltellante sul quale canta una filastrocca, che di colpo si ferma. E dal nulla sbuca un’ultima, sola, tremenda chitarra sciolta in un lago d’acqua dolce. La voce di un bambino chiude tutto, e riecheggerà per molto tempo nelle orecchie dell’ ascoltatore.

Adesso l’unica domanda possibile è: “dove sono?”